LETTURA: Vincenzo Abbatantuono, Un calcio in faccia, storie di adolescenti ultras,

INTRODUZIONE
Mi chiesero se fossi disponibile a “lavorare” con gli ultrà. Risposi di sì senza neanche pensarci. Non vi dirò né l’anno né i luoghi, perché quello che vi racconterò non diventi pretesto per ulteriori diffamazioni a danno degli ultrà, del loro mondo che non è né peggio né meglio di quelli con cui confina. Sono testimoni di una fede catacombale, una faccenda per iniziati, con riti e liturgie, oltre trent’anni di storia alle spalle e illustri parentele non dichiarate, altro che chiacchiere su incorreggibili trouble makers sottoproletari e sottosviluppati. Vi dirò del giorno in cui capii che la Curva non era uguale dappertutto. E fu un giorno speciale. Sono stati mesi duri, trascorsi sui pullman e sulle gradinate, a scrutare quelle persone che vivono solo per la curva e che ad essa consegnano i migliori anni della loro vita.

Ci sono ultrà di tutti i tipi, difficile fare di tutta l’erba un fascio, come si è soliti fare per semplificare lo sporco lavoro dello sputasentenze. Sono rimasto spesso ad ascoltare i racconti di alcuni di loro a cui, ancora adesso, mi lega un rapporto da fratello maggiore; ragazzi di borgata con famiglie complicate e numerose, confinate in palazzoni anonimi dove si confondono storie e passioni tra i labirinti di scale intrise di pessimo detersivo, testimoni di un’emarginazione che nessuna politica sulle periferie cancellerà mai e che è diventata brodo di coltura per una identità di luogo forte e ostentata.

Ma anche ragazzi studiosi e dal futuro assicurato, di cosiddetta buona famiglia, dall’eloquio sufficientemente fluente, gente che ti costruisce un sito web in un paio d’ore e che riesce a raccontare la storia del suo popolo con facondia omerica. Lunghe ore di racconti: le sfide all’Ok Corral in piazza Bengasi con i granata, gli striscioni sottratti ai milanisti con una furbata degna del miglior Ulisse, le infinite polemiche sulle ortodossie ultrà minate dall’avidità di alcuni, le sconfitte quotidiane, i licenziamenti immotivati, le fidanzate stanche di amare un ultras, un rivoluzionario di professione che, come tutti i rivoluzionari di professione, non conosce amore se non per l’umanità o per l’universo per cui vive e combatte.

Salvatore, Gennaro, Andrea e Mimmo sono personaggi immaginari con storie vere, ascoltate con trepidazione e trascritte con rispetto – mi auguro – rimescolate per sottrarle a tentazioni inquisitorie e moralistiche. Sono ultras di “seconda fascia”, ragazzi di vita che non assurgeranno ad alcuna leadership, umili soldati e non ufficiali, bersagli di invettive unanimi e portatori insani di messaggi eticamente riprovevoli. Questo fino a quando non si scopre la loro genuinità, l’impegno gratuito che mettono al servizio di una causa, per quanto discutibile essa sia. Sono loro gli ultimi Mohicani di un piccolo mondo antico destinato a comodi divani piazzati strategicamente di fronte a televisori ultrapiatti e sotto ingombranti antenne paraboliche. Sempre che per alcuni di loro i divani non vengano piazzati in qualche luogo di detenzione coatta. Sono il “male assoluto”, grazie al quale il calcio del doping farmacologico e finanziario si autoassolve. Non è vero che sono brutti e cattivi. A me sono sembrati bellissimi. Questa è la storia di un educatore che ritrova la sua tribù. Andò per insegnare e finì per imparare.

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