di Federico Brusadelli
Mentre lo picchiavano “avevano la bava alla bocca”. E con il manganello gli hanno ferito la testa, gli hanno rotto un dente, lo hanno riempito di lividi su tutto il corpo. Picchiato a freddo e poi arrestato (quattordici testimoni e tre video, a raccontare tutto) per colpa di un giubbotto rosso, troppo simile – almeno così pare – a quello di un ultrà “ricercato” per le violenze che quel 5 maggio erano esplose nella capitale dopo la finale di Coppa Italia (Roma-Inter) che lui, Stefano Gugliotta, venticinque anni, nessun precedente penale, aveva visto a casa, in televisione. E comunque, come dice disperata la madre, «di qualsiasi cosa possano sospettarlo, non si può trattare così una persona». Ecco, in questa storia non ci possono, non ci devono essere giustificazioni a difesa di tre balordi vestiti da poliziotti. Come nel caso di Stefano Cucchi, come nel caso del mattatoio di Genova, come nel caso di Gabriele Sandri. Zone grigie. Zone d’ombra in cui si misura l’amore per la verità. Perché difendere sempre e comunque – quasi in preda a un riflesso politico-culturale di tipo pavloviano – chi indossa un’uniforme, anche se la sporca col sangue di qualche innocente, è un atto di violenza nei confronti della giustizia e della dignità umana. Ed è un atto di violenza nei confronti di chi invece (e si tratta, ma non ci sarebbe neanche bisogno di ricordarlo, della stragrande maggioranza dei poliziotti italiani) quella stessa uniforme la indossa con responsabilità, con onore, con senso dello Stato, con rispetto. Per fortuna, la richiesta di luce (ora che i tre sono stati identificati), questa volta è convinta e bipartisan: un appello alla giustizia che parte dal governatore Renata Polverini e dal presidente della Provincia Zingaretti, tanto per fare due nomi. Mentre il capo della Polizia Manganelli ha disposto una “rigorosa attività ispettiva”, e la questura ha assicurato che verificherà «con scrupolo e massima trasparenza l’esatta dinamica degli eventi». “Tolleranza zero”, si ripete spesso. Soprattutto quando si parla di clandestini. Giusto. Ma con chi macchia una divisa, con chi abusa della delega ricevuta dallo Stato, con chi si fa forte di un distintivo per sfogare frustrazioni e bestialità, con chi “in nome della legge” massacra un ragazzo senza colpe (e anche se le avesse avute, poco cambia, in uno stato di diritto) servirebbe la coerenza di chiedere a gran voce un po’ di “tolleranza sotto-zero”.
fonte: ultrasblog